Il mistero del passo Dyatlov

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Group
    Administrator
    Posts
    6,171

    Status
    Anonymous
    CITAZIONE

    Il mistero del passo Dyatlov

    dyatlov-lui-300x197



    Nella notte del 2 Febbraio 1959, 9 escursionisti russi morirono misteriosamente in una località di montagna nota come Холат Сяхл, Kholat Siakhl, (nella lingua Mansi, una popolazione semi nomade di ceppo ugro finnico che abita la zona da millenni, “Montagna dei Morti”), in circostanze tuttora misteriose e che hanno generato una grande quantità di ipotesi. Da allora, la località è stata ribattezzata Passo Diatlov (Перевал Дятлова) , dal nome del capo escursionista, Igor Diatlov.

    Tutto ebbe inizio quando un gruppo di studenti dell’Istituto Politecnico degli Urali (Уральский Политехнический Институт, УПИ), si riunì per partecipare a un’escursione attraverso gli Urali settentrionali a Sverdlovsk (Свердловск), oggi Iekaterinburg (Екатеринбург), guidati da un esperto conoscitore della zona, studente pure lui, Igor Diatlov (Игорь Дятлов ). Del gruppo, oltre a lui, facevano parte Sinaida Kolmogorova (Зинаида Колмогорова), Liudmila Dubinina (Людмила Дубинина), Aleksandr Kolevatov (Александр Колеватов), Rustem Slobodin (Рустем Слободин), Iuri Krivoniscenko (Юрий Кривонищенко), Iuri Doroscenko (Юрий Дорошенко), Aleksandr Solotarev (Александр Золотарев), Nikolaj Tibo-Brignol (Николай Тибо-Бриньоль), Iuri Iudin (Юрий Юдин).

    Gli escursionisti volevano raggiungere l’Otorten (Отортен), una montagna dieci chilometri a nord del Kholat Siakhl, seguendo un percorso non facile, ma tuttavia alla portata dei componenti la spedizione, tutti piuttosto esperti.

    Il 25 Gennaio, i dieci ragazzi arrivarono in treno a Ivdel (Ивдель), nel nord della oblast di Sverdlovsk, (Свердло́вская о́бласть) , dove noleggiarono un grosso furgone per portarsi a Vijai (Вижай) , ultimo centro abitato sul percorso. Quindi, nella giornata del 27, iniziarono a muoversi sugli sci verso l’Otorten. Il giorno seguente, Iuri Iudin fu costretto a rientrare per motivi di salute. Da quel momento, tutto quello che si sa del gruppo è stato ricostruito da diari e da un rullino fotografico rinvenuto nel sito del loro ultimo accampamento.

    Il 31 Gennaio il gruppo arrivò sull’altopiano e costruì un magazzino dove lasciò una scorta di cibo e di equipaggiamento per il ritorno. Il giorno dopo, 1 Febbraio, i ragazzi si avviarono verso il Passo, con l’intenzione, stando a quanto trovato scritto nei diari, di superarlo e di accamparsi per la notte dall’altra parte, ma, a causa del sopraggiungere di una fitta nevicata che ridusse di molto la visuale, persero l’orientamento e deviarono a ovest, verso la cima del Kholat Siakhl. Accortisi dell’errore, decisero di fermarsi ai piedi della montagna.

    Alla partenza, Diatlov aveva promesso di inviare un telegramma al loro club sportivo non appena il gruppo fosse tornato a Vijaj, non oltre il 12 Febbraio, ma quando tale data fu superata e il telegramma non ricevuto, nessuno si preoccupò dato che in questo tipo di escursioni rispettare una tabella di marcia non era sempre facile. Solo il 20 Febbraio, e solo su richiesta dei familiari degli escursionisti, la direzione del Politecnico inviò un primo gruppo di volontari, studenti e insegnanti, a cercare i ragazzi scomparsi. Successivamente, vista l’infruttuosità delle ricerche, vennero coinvolti anche la polizia e l’esercito, con l’impiego di aerei ed elicotteri.

    Il 26 Febbraio venne finalmente ritrovato il campo, abbandonato, sul Kholat Siakhl. La tenda era strappata e una serie di impronte si allontanava da essa scendendo dal passo verso i boschi vicini, per sparire dopo 500 metri, coperte dalla neve. Da un elicottero venne rilevato qualcosa sotto un pino, e i ricercatori vi diressero per trovare i resti di un fuoco e i primi due cadaveri, quelli di Krivoscenko e di Doroscenko, senza scarpe e in mutande e maglia di lana. Facendo a ritroso il percorso dal pino all’accampamento, vennero ritrovati altri tre corpi, prima Diatlov a 300 metri dal pino, poi la Kolmogorova a 480, e infine, Slobodin a 630 metri, tutti e tre morti in pose che suggerivano stessero facendo ritorno al campo.

    dyatlov_tent_torn

    d8f3f-dyatloffz_group_palatka_razrezy_frag_15b15d

    db5c5-tent2520cuts



    Gli altri quattro non furono ritrovati che il 4 Maggio, sotto diversi metri di neve, in una piccola vallata ancora più addentro nel bosco.

    L’autopsia non trovò ferite che potessero aver causato la morte, salvo una piccola frattura cranica non fatale sulla Kolmogorova; la conclusione fu che la morte era sopravvenuta per ipotermia. Quando però, in Maggio, furono esaminati gli altri corpi, lo scenario cambiò completamente: Tibò-Brignol aveva il cranio completamente sfondato, Zolotarev e la Dubunina il petto e le costole fratturate. La forza necessaria per provocare quel tipo di lesioni doveva essere stata spaventosa, uno degli esperti forensi la paragonò a quella sviluppata da un incidente automobilistico. Inoltre, i corpi non presentavano ferite esterne, come se fossero stati uccisi da un livello di pressione molto alto, e alla Dubunina era stata asportata la lingua.

    Gli escursionisti erano stati costretti a lasciare il campo nella notte, in modo precipitoso: nonostante la temperatura intorno ai trenta gradi sottozero, erano tutti solo parzialmente vestiti, alcuni scalzi, altri avevano i maglioni infilati a rovescio, e tutti gli indumenti apparivano stracciati, tanto che, in un primo momento si ipotizzò che gli escursionisti fossero stati assaliti nella notte dai Mansi per avere invaso il loro territorio, ma l’ipotesi cadde ben presto visto l’assenza di impronte oltre quelle degli escursionisti.

    L’inchiesta giunse a queste conclusioni:

    1. Sei membri del gruppo erano morti di ipotermia, altri tre per le ferite.
    2. Non c’erano segni che suggerissero la presenza di estranei, né sul Kholat Siakhl e nemmeno nelle immediate vicinanze.
    3. La tenda era stata strappata dall’interno.
    4. I ragazzi erano tutti deceduti fra le sei e le otto ore dopo il loro ultimo pasto.
    5. Le tracce visibili non lasciavano dubbi sul fatto che tutti e 9 avessero lasciato il campo a piedi di propria iniziativa.
    6. Le ferite e le fratture non potevano essere state provocate da un altro essere umano a causa dell’elevata forza applicata.
    7. Furono rilevati alti livelli di radioattività sui vestiti.


    Il verdetto finale fu che erano morti per cause sconosciute, la documentazione venne secretata dal KGB, e solo dopo la caduta dell’URSS declassificata, anche se risultò incompleta in molte parti. Alcuni fatti vennero comunque accertati dalla documentazione resa disponibile:

    1. Dopo i funerali i parenti affermarono che la pelle dei morti avesse una strana tonalità arancione.
    2. Un ex ufficiale dell’esercito, impegnato nelle ricerche, sostenne che il suo dosimetro mostrava un livello di radioattività molto elevato sul Kholat Siakhl. L’dentificazione della fonte risulta mancante dal dossier declassificato, così come non risulta chiaro per quale motivo il personale impegnato nelle ricerche avesse dei dosimetri.
    3. Un altro gruppo di escursionisti, circa 50 chilometri a sud del luogo dell’incidente, riportò di avere visto delle strane sfere arancioni nel cielo notturno in direzione nord, e quindi verso il Kholat, il giorno stesso dell’incidente; il fenomeno venne osservato anche a Ivdel e nelle aree circostanti, e si ripeté per tutto il mese di Febbraio e di Marzo, come risulta dalle testimonianze rese da ufficiali dell’Armata Rossa e del servizio meteorologico della zona.
    4. Dalle ricostruzioni sembra che le vittime fossero state accecate: il legno acceso sotto il pino era stato realizzato in maniera convulsa, utilizzando per di più grossi tronchi umidi, quando tutt’intorno era pieno di ottima legna da ardere.
    5. Nella zona furono rinvenute delle strutture metalliche e una targhetta di identificazione del tipo usato nelle attrezzature militari, il che fa supporre che l’area fosse utilizzata in segreto.

    Nel 1967, lo scrittore Iuri Iarovoj (Юрий Яровой), che aveva partecipato alle ricerche come fotografo ufficiale, scrisse un racconto ispirato alla vicenda, Высшей категории трудности[1] (Il massimo grado di complessità), ma fu costretto dalla censura sovietica ad omettere tutta una serie di fatti, che finirono con lo stravolgere completamente la narrazione. Iarovoj morì nel 1980, e un misterioso incendio distrusse tutti i suoi archivi, comprese le foto e il manoscritto originale del romanzo.

    Nel 1990, ormai prossima la caduta dell’URSS, si cominciò a riparlare della storia, soprattutto sui giornali locali di Sverdlovsk. Il giornalista Anatoli Guscin (Анатолий Гущин) fu autorizzato a fare ricerche negli archivi della polizia, ma scoprì che diverse pagine erano state sottratte, compreso un misterioso “incartamento” di cui si fa menzione essere stato inviato a Mosca. Il fatto scatenò i cultori degli UFO, del paranormale, i dietrologi di ogni genere, i cacciatori di misteri. Guscin riassunse le sue ricerche nel libro Цена гостайны - девять жизней[2], “Il prezzo del segreto di Stato è nove vite”, che suscitò diverse critiche per via della sua teoria su una misteriosa arma segreta che sarebbe stata sperimentata in quei luoghi e avrebbe causato la morte dei nove ragazzi, ma la pubblicazione del libro suscitò comunque l’interesse dell’opinine pubblica e sciolse qualche lingua rimasta attorcigliata per oltre trent’anni: Lev Ivanov (Лев Иванов), l’ufficiale di polizia che diresse l’inchiesta, in un articolo[3] apparso nel Novembre 1990, ammise che non era stata trovata una spiegazione razionale per la morte dei ragazzi, né per l’incidente in sé, così come che gli era stato ordinato dal KGB di archiviare in fretta l’inchiesta e tacere le voci sulle misteriose “sfere arancioni”. Ivanov conclude l’articolo sostenendo la sua persona le convinzione si sia trattato di UFOs.

    Nel 2000, una TV locale produsse il film documentario Перевал Дятлова (“Passo Diatlov”), seguito da una romanzo, scritto dalla giornalista di Iekaterinburg Анна Матвеева (Anna Matvejeva) dallo stesso titolo[4], basato in gran parte sui diari delle vittime e su interviste coi membri della squadra di soccorso dell’epoca. Iuri Kuntzevitch (Юрий Кунцевич), amico di Diatlov, ha creato, col supporto del Politecnico degli Urali, una fondazione a lui dedicata con lo scopo di convincere le autorità russe a riaprire il caso.

    E Iuri Iudin, l’unico sopravissuto della scampagnata, ha dichiarato: “Se avessi la possibilità di rivolgere a Dio una sola domanda, sarebbe ‘Cosa realmente è successo ai miei amici quella notte’?

    qui il sito con la ricostruzione e le foto della misteriosa vicenda:avvenimentimilitariestorici.over-blog.it

    scatti originali della spedizione.

    autopsie la versione 'ufficiale' del referto medico tradotto dall'inglese:
    CITAZIONE
    Sotto l’albero intorno ad i resti di un fuoco:

    Y.Doroschenko
    Indumenti: inadatti al clima,
    Note vesti: strappi torso, 23 cm sulla destra e di 13 cm sulla sinistra,
    piede sin. Calzino bruciacchiato
    Corpo:
    - bruciature sui capelli nella parte dx della testa,
    - orecchi, naso e labbra sono coperti di sangue,
    - ascella sinistra con bruciatura 2cm*1.5 cm
    - superficie interna spalla dx con abrasioni (no sangue),
    - lividi sulla parte inferiore dell'avambraccio sin. 4*1cm, 2.5*1.5cm, 5*5cm
    - lacerazione sulle dita delle mani,
    - lividi sui polpacci ,
    - segni di congelamento su faccia e orecchi,
    - sulla guancia sinistra tracce di un fluido grigio fuoriuscito dalla bocca (nota: qualcuno pensa che il liquido possa essere il risultato di una pressione esterna sul petto),
    Causa morte: ipotermia

    George (Yuri) Krivonischenko
    Indumenti: inadatti al clima,
    Corpo:
    - lividi sulla fronte 0.3*1.8cm e sull'osso temporale
    - sanguinamento sull'osso temporale dx e regione occipitale dovuta a danni sul muscolo temporale
    - punta del naso mancante,
    - segni di congelamento alle orecchie,
    - lividi sulla parte destra del petto 7*2cm and 2*1.2cm
    - lividi sulle mani
    - distacco epidermide retro mano sinistra atezza 2 cm,
    - porzione dell'epidermide della mano destra trovata nella bocca del corpo,
    - lividi sulle cosce con graffi minori,
    - livido nell'anca sin. 10*3cm
    - abrasioni sulla parte esterna coscia sin. 6*2cm and 4*5 cm
    - lividi sulla gamba sin. 2*1, 2*1.5 and 3*1.3 cm
    - briciatura sulla gamba sin. 10*4 cm
    Causa morte: ipotermia

    Tra l’albero e la tenda (i tre corpi sono stati trovati più o meno sulla stessa direttrice):
    Zinaida Kolmogorova (900 metri dall’albero)
    Direzione corpo: verso la tenda, con tracce di sangue (di origine ignota) intorno al corpo,
    Indumenti: inadatti al clima,
    Note vesti: maglione con polsini girati, no scarpe e maschera militare
    Corpo:
    - rigonfiamento delle meningi (importante segno di ipotermia),
    - congelamento falangi delle dita,
    - numerosi lividi su mani e palmi,
    - un lungo livido che la circonda sul lato destro 29* 6cm.
    Causa della morte: ipotermia dovuta a un improvviso incidente (!!),
    Nota: al momento della morte non era sessualmente attiva.

    Igor Dyatlov (400 m dall’albero, trovato con un ramo in una mano e l’altra mano a proteggere la testa)
    Direzione corpo: verso la tenda,
    Indumenti: inadatti al clima, (no scarpe),
    Corpo:
    - abrasioni minori sulla fronte,
    - abrasioni sopra il sopracciglio sin di colore marrone-rosso,
    - abrasioni marroni-rosse su entrambe le guance,
    - sangue secco sulle labbra,
    - piccoli graffi rosso scuro sul polso e sulla superficie del palmo
    - giunture del metacarpo della mano dx con lividi marroni/rossi (nota: tipico livido da pugno inferto durante un combattimento a mano nuda)
    - lividi marroni/porpora sulla mano sinistra e ferite superficiali nel 2° e 5° dito,
    - lividi sulle ginocchia senza sanguinamento sui tessuti sottopelle,
    - lividi sulla tibia della camba destra,
    - abrasioni su entrambe le anche di colore rosso chiaro 1*0.5 cm and 3.0*2.5, emorragie nei sotto-tessuti,
    Causa morte: ipotermia

    Rustem Slobodin (630 m dall’albero)
    Direzione: verso la tenda,
    Indumenti: inadatti al clima (uno stivale piede sin),
    Corpo:
    - minori abrasioni rosse sulla fronte, due graffi lunghi 1.5 cm a distanza di 0.3 cm tra loro,
    - livido rossi-marroni sulla parte superiore della palpebra occhio dx con emorragia sottocutanea,
    - tracce di sanguinamento dal naso,
    - labbra gonfie,
    - rigonfiamento e molte piccole abrasioni di forma irregolari sulla metà dx del viso,
    - abrasioni sulla parte sinistra della faccia,
    - l'epidermide è lacerato sull'avambraccio dx,
    - lividi sulle giunture della falange del metacarpo in entrambe le mani (comuni nel combattimento a mani nude),
    - lividi color marrone ciliegio sul braccio sinistro e palmo sin.,
    - lividi sulla tibia sin. 2.5* 1.5 cm,
    - frattura dell'osso frontale ed emorragie nel muscolo temporale.
    Causa morte: ipotermia

    In un declivio a 75 m dall’albero e parzialmente scavato da loro stessi:
    Nota: i 4 corpi furono trovati a pochi passi dal rifugio che si erano costruiti (foderando dei rami di albero con vestiti presi ai compagni già morti) nella parte più profonda del declivio.

    Ludmila Dubinina (tracce di radiazione)
    Indumenti: adeguatamente vestita
    Nota indumenti: Il paio di pantaloni esterni erano decisamente danneggiati da fuoco e conseguentemente strappati. In un estremo tentativo di proteggersi dal freddo, si è tolta un maglione lo ha diviso in due pezzi cercando di metterselo intorno ai piedi.
    Corpo:
    - lingua mancante,
    - tessuti molli mancano intorno agli occhi, nell'area temporale sin. l'osso è parzialmente esposto,
    - mancano gli occhi,
    - cartilagini del naso sono rotte e abbattute,
    - la 2a,3a,4a e 5a costola sono rotte sulla dx. due linee di frattura sono visibili,
    - la 2a, 3a, 4a, 5a, 6a e 7a costola sono rotte sulla sin. due linee di frattura sono visibili,
    - manca il labbro superiore e i denti e la mascella superiore sono esposte,
    - massiccia emorragia nell'atrio destro del cuore,
    - livido sulla coscia sinistra, 10*5cm,
    - tessuti danneggiati attorno all'osso temporale sin. 4*4cm
    Causa della morte: emorragia all'atrio dx del cuore, fatture costali multiple e sanguinamenti interni.

    Semen Zolotarev (tracce di radiazioni)
    Indumenti: adeguatamente vestito.
    Nota indumenti: aveva una macchina fotografica al collo (pellicola danneggiata). Secondo Yudin il gruppo aveva 4 fotocamere, tutte trovate nella tenda, e delle quali già una apparteneva a Zolotarev, questa quindi sarebbe una seconda camera per di più tenuta nascosta.
    Corpo:
    - palle oculari mancanti,
    - mancanti i tessuti molli attorno all'occhio sinistro, 7*6cm, osso esposto,
    - 2a, 3a, 4a, 5a e 6a costola rotta, due linee di frattura,
    - ferita aperta sulla parte destra del cranio con osso esposto 8*6cm.

    Aleksandr Kolevatov
    Indumenti: adeguatamente vestito,
    Nota indumenti: , grande foro sulla manica sinistra del giacchetto con margini bruciati e dimensione 25cm * 12cm *13 cm. Manica dx con fori di 7-8 cm. Il giacchetto era aperto.
    Corpo:
    - mancanza di tessuti molli attorno agli occhi, palpebre mancanti, ossa del teschio scoperte.
    - naso rotto,
    - ferita aperta dietro l'orecchio, 3*1.5cm,
    - collo deformato,
    - diffuso sanguinamento nei tessuti sottocutanei del ginocchio sinistro,
    - macerazione delle dita e dei piedi per elevata esposizione all'umidità di pelle viva,
    - generale colorazione grigio verde della pelle con sfumature porpora,

    Nikolay Thibeaux-Brignolle
    Indumenti: adeguatamente vestito,
    Corpo:
    - fratture multiple all'osso temporale con estensione dell'osso frontale e dello sfenoide,
    - lividi sul labbro superiore sul lato sinistro,
    - emorragia sull'avambraccio dx. 10*12cm.
    Nota: i 4 non sono morti per ipotermia ma per fratture varie di origine ignota. Il medico forense che eseguì le autopsie definì il tipo di lesioni ‘come se fossero stati investiti da una macchina.’

    foto dei corpi ritrovati

    CITAZIONE

    Storia del caso che scioccò l’Unione Sovietica
    di Simone Petrelli



    Gora Otorten, Monti Urali. Una montagna in territorio russo che raggiunge i 1150 metri sul livello del mare. I paraggi sono scarsamente popolati, tanto che il calcolo della densità per chilometro quadrato restituisce un indice vago, clamorosamente prossimo allo zero. Per trovare una città con almeno 50mila abitanti bisogna farsi carico di più di 18 ore di viaggio, sfruttando tutti i disagevoli trasporti che un luogo primitivo come quello può offrire. Sull’Otorten non ci sono inondazioni e non si verificano frane. Il suolo non è nemmeno di natura vulcanica e, da quelle parti, non si è mai visto neanche un tornado. Il clima rigido azzera il rischio di siccità e, tutto sommato, l’unico pericolo che l’area corre in termini di catastrofi naturali è quello sismico. Un’eventualità della quale, tuttavia, gli esperti hanno acutamente circoscritto il rischio ad appena il 20% delle possibilità reali, con terremoti a basso impatto (inferiori al quinto grado tra quelli annoverati dalla scala Richter). Così, ogni 50 anni circa, quando gli Urali tremano e con essi si muove anche l’Otorten, le poche anime che ne abitano le pendici avvertono distintamente le scosse solo se si trovano in casa. Camminando potrebbero addirittura ignorarle. Se il sisma si verifica di notte, solo i più sensibili si svegliano. Evidentemente, hanno altro di cui preoccuparsi, altro per il quale perdere il sonno.
    Il loro incubo peggiore ha addirittura mezzo secolo. E’ una storia incredibile, che ci riporta indietro di una vita, al febbraio 1959. Un interrogativo maiuscolo che da decenni appassiona esperti e curiosi in tutto il mondo. Una cronaca perduta che, diradatasi di colpo la cortina sovietica e, con essa, la coltre di silenzio che Mosca aveva calato su uno dei paesi più grandi del globo, ha ritrovato la strada e l’onore della cronaca. Così, dopo anni infiniti di oblio, nel 53esimo anniversario di una tragedia senza nome e senza spiegazione si ricomincia a cercare la verità.
    Martedì 19 febbraio 2008 il St.Petersburg Times, quotidiano russo in lingua inglese, pubblica un lungo, singolare articolo. E’ una sorta di memento, la ricostruzione circostanziata di uno strano incidente avvenuto in piena éra sovietica, quando falce e martello difendevano una cortina che avrebbe livellato a forza le disparità di classe, arginando e sconfiggendo il grande male, l’Occidente.
    Una strage di sciatori consumatasi in una zona sperduta tra le montagne. Negli Urali, per la precisione. Sull’Otorten. Nove giovani fuggiti a perdifiato, seminudi, dal loro accampamento. Di corsa nel buio tagliente dei meno venti gradi della notte invernale. Verso la salvezza, forse. Di sicuro, verso l’assideramento. E verso la morte. Non è chiaro il perché. E ci sono altre cose che non tornano. Sono strani morti, quelli. La cosa probabilmente non torna nemmeno agli inquirenti, perché fanno in fretta, troppo in fretta, a chiudere il caso. “Decesso provocato da forza sconosciuta ed irresistibile” si sarebbe potuto leggere sul rapporto ufficiale. Ma tutti i documenti sull’Otorten spariscono dalla circolazione. Segretati e seppelliti tra i panni sporchi del regime, dormono il loro sonno infausto finché la Glasnost non demolisce i sigilli degli archivi di Stato, liberando i demoni rossi del rosso Cremlino. Misteri sopiti si risvegliano, e si infittiscono.

    3-200x300
    Igor Dyatlov



    A Iekaterinburg, capoluogo degli Urali, alcuni volenterosi convocano una conferenza per riesaminare il caso. Sono gli uomini di una fondazione che ha scelto di chiamarsi come un ragazzo poco più che ventenne, appassionato di escursionismo, morto in circostanze tragiche proprio nella regione. Il nome è Igor Dyatlov. Capo spedizione del gruppo massacrato nel 1959 sull’Otorten. E’ un gruppo di testardi, quello messo in piedi dalla fondazione: 37 persone in tutto, la maggioranza delle quali è costituita da esperti indipendenti, non legati in nessun modo al governo un tempo in carica o a quello che, ad oggi, tiene le fila del paese. Gli altri sei membri del gruppo, invece, si riconoscono per l’età più avanzata. E per l’ombra scura che portano sul volto. L’indizio di qualcosa di più gravoso di un cattivo pensiero. E di più insistente di un brutto sogno. Qualcosa che, soprattutto, assai difficilmente sembra coniugarsi con l’ipotesi di massima che conclude i lavori della conferenza. Conseguenza – nefasta – di un’esercitazione militare top secret. Quei sei uomini, nervosi ed invecchiati senza troppa grazia, sono testimoni. Mentre un distinto portavoce della fondazione declama l’onnipresente comunicato finale a giornalisti e curiosi vari, venuti nel capoluogo da Čeljabinsk e Perm’, Nižnij Tagil e Magnitogorsk, salmodiando con perizia nel microfono consumato che “ancora molti documenti risultano mancanti, e per questo chiediamo al Ministero della Difesa, all’Agenzia Spaziale ed ai Servizi di Sicurezza Nazionale di metterci in condizioni di consultarli con lo scopo precipuo di ottenere un quadro completo della vicenda”, uno di essi, Mikhail Sharavin, sembra scuotere la testa all’unisono con gli altri.
    Come loro, sa fin troppo bene che, anche per questa volta, i – troppi – nodi che questa faccenda porta con sé con tutta probabilità non verranno al pettine. Ex soccorritore come altri cinque che sono là con lui, l’orrore l’ha toccato con mano, lui. Tanto che oggi è schiavo di un ricordo che non concede requie. Un ricordo fisso, che riavvolge il nastro della memoria riportandolo ossessivamente indietro alla fine degli anni Cinquanta. Il 25 gennaio 1959, dal treno in sosta presso la modesta stazione di Ivdel, provincia settentrionale di Sverdlovsk Oblast, scende un gruppo di dieci giovani. Otto uomini e due donne, appartengono praticamente tutti al Politecnico degli Urali di Ekaterinburg. Un istituto che oggi si chiama Università Tecnica Statale degli Urali, ed è intitolata a Boris “Corvo Bianco” Yeltsin. Amanti dello sci di fondo, coltivano un’altra passione comune, quella delle escursioni invernali. Viaggi molto diffusi tra giovani scienziati ed ingegneri come loro, che ne approfittano per compiere veloci ricerche sul territorio che, al ritorno, frutteranno ai loro profili accademici un buon balzo avanti rispetto ai colleghi più pantofolai.

    jpg
    Da sin.: Ludmila Dubinina, Rustem Slobodin, Alexander Zolotarev e Zina Kolmogorova


    C’è anche chi, oltre allo scopo più direttamente didattico, fonde escursioni di natura marcatamente sportiva. E’ proprio questo il nostro caso. Igor Dyatlov, studente della facoltà di Radionica; Yuri Yudin, studente di Economia; Alexander Kolevatov, studente di Geotecnica; Rustem Slobodin, Georgyi Krivonischenko e Nikolay Tibo-Brignoles, ingegneri; Yury Doroshenko, studente di Scienze Politiche. Le uniche due donne del gruppo, Ludmila Dubinina, studente di Economia, e Zinaida (Zina) Kolmogorova, anch’essa studente della facoltà di Radionica. Alexander Zolotarev, il decimo, è una guida professionale ed un istruttore di sci. Si è accodato al gruppo di Dyatlov per aggiungere al suo status quei punti in più che gli avrebbero garantito il titolo di Istruttore esperto, tanto ambito tra le guide russe. E’ l’unico estraneo al team, caldamente raccomandato ai ragazzi da un amico dell’Associazione Sportiva.
    I dieci trovano un camion diretto a Vizhay ed approfittano di un passaggio che li conduce nel villaggio in cui trascorreranno la notte. All’alba del 27 gennaio indossano gli sci e sono già in marcia verso Gora Otorten, lo sperone roccioso di un monte, il Kholat Syakhl, che nel dialetto delle tribù Mansi che abitano la regione ha il macabro significato di “Montagna dell’Uomo Morto”. Ma loro sono giovani e spavaldi, e queste non sono che antiche leggende di cui sorridere. L’unico che non sembra avere molto di cui rallegrarsi è Yudin. Non si sente bene, è debole e di malumore. Rallenta la marcia e non riesce proprio a godersi la gita. Così, il 28 gennaio decide di fare dietrofront e tornare a Vizhay per rimettersi in forze. Se starà meglio in tempi brevi li raggiungerà da solo. Oppure, saranno gli altri a tornare a prenderlo una volta terminata l’escursione. La marcia prosegue seguendo una vallata in cui scorrono le acque del fiume Lozvy. Tre giorni dopo, il gruppo si stacca dal rivo e dalla zona dei laghi ghiacciati non appena giunge in vista dei rilievi. Termina la marcia ed inizia la salita che lo condurrà sull’Otorten e, di qui, verso il Passo Ojkachahl. 100 miglia ad est di Vizhay, lambendo il corso del fiume Toshemka. Per la fine degli anni Cinquanta, si tratta di una bella impresa agonistica, di quelle che gli esperti di trekking etichettano come “Categoria III”. Pare che Dyatlov stesso l’abbia pianificata per allenarsi in vista della futura escursione che popola i suoi sogni dorati: quella nelle regioni artiche. Dopo poco meno di 4 chilometri di salita, i nove allestiscono un campo base ai margini del bosco, sul fianco del Kholat Syakhl. Sono le 4 del pomeriggio del 1 febbraio 1959. Non sanno, non possono sapere, che sarà il loro ultimo rifugio. Scattano fotografie, sorridono. Ammirando il paesaggio degli Urali imbiancati consumano la cena e le ultime energie, prima di ritirarsi in tenda. Alcuni crollano subito. Altri scrivono per riempire le pagine dei loro diari. Saranno le loro ultime note.
    Inizia la notte. E’ una notte fredda, ma non troppo: il termometro segna 18 gradi Celsius sotto lo zero, e spira un vento leggero a velocità compresa tra 8 ed 11 nodi (10-15 km orari). Niente a che vedere con i meno 30 spesso registrati nell’area, ma ad ogni modo l’aria non è affatto primaverile. Eppure, alcuni si sentono talmente a loro agio da spogliarsi prima di dormire. Una cosa assolutamente insolita in un clima così rigido. Tutto sembra procedere normalmente. Ma l’imprevisto è dietro l’angolo.

    2-300x225



    Il 12 febbraio è la data in cui il gruppo di Dyatlov dovrebbe fare ritorno a Vizhay e, di qui, inviare un telegramma ufficiale per comunicare l’avvenuto completamento dell’escursione. Ma all’ufficio postale della cittadina degli Urali le ore trascorrono e nessuno si presenta. Qualcuno, tuttavia, ricorda che il gruppo aveva pianificato anche l’ipotesi di estendere il soggiorno, posticipando il ritorno a due giorni più tardi. Ma neanche il 14 febbraio si vede nessuno. Ora le spiegazioni cominciano a latitare. Ma c’è sempre il beneficio del dubbio, la carta del ritardo, dei tanti imprevisti che possono far slittare la tabella di marcia. Ormai il calendario segna il 20 febbraio, e non si contano più le lamentele che i parenti dei ragazzi presentano all’Istituto Politecnico. E’ tanta la pressione che, per evitare che la situazione degeneri ulteriormente, la direzione si rivolge al governo per ottenere la costituzione ed il dislocamento di una missione di soccorso. Per tutta la successiva settimana, un pool misto di autorità civili e militari setaccia l’area in cerca di indizi. Si rovista invano tra i monti. I nove ragazzi sembrano spariti nel nulla. Poi, il pilota di un velivolo in ricognizione scorge qualcosa sul Kholat Syakhl. Finalmente. E’ il 26 febbraio quando le squadre arrivano sul fianco orientale della Montagna dell’Uomo Morto. Sotto i loro piedi, giace in stato di abbandono quello che fino a qualche tempo prima era stato un accampamento. C’è una tenda semisepolta dalla neve. E’ quella dei ragazzi. L’equipaggiamento è quasi tutto al suo posto. Strano, abiti caldi, coperte, zaini, giacche a vento, pantaloni. Tutto. Anche la tenda sembrerebbe a posto. Peccato che su di un lato, quello sottovento, è lacerata. Più tardi si scoprirà che è stata tagliata, ma dall’interno. Dai brandelli di tenda che si agitano rigidi in balìa del vento gelido, parte una traccia netta che per mezzo chilometro attraversa la neve. Arriva fin quasi al bosco, dove inizia la valle del fiume Lozvy. Poi più nulla. Impronte per un totale di otto, forse nove persone. Alcune orme sono meno profonde ma più definite. Sono impronte di valenki (stivali soffici) o di calzini, forse addirittura di piedi nudi. Non può essere. A meno che non si sia trattato di un fuga. Sì, è possibile. Una fuga frettolosa.
    Tra i soccorritori c’è chi inizia a provare una certa agitazione. Non è normale. A nord-est, 1500 metri dopo e dall’altro lato del passo, c’è un albero immenso. E’ un pino secolare, e nei pressi della sua base i ricercatori ritrovano tracce di legna carbonizzata, come se qualcuno avesse acceso un falò proprio in questo punto. Forse sono stati i due che giacciono nella neve qualche passo più in là. Georgyi Krivonischenko e Yury Doroshenko. Scalzi e con indosso soltanto la biancheria, sembrano adagiati su un immenso lenzuolo di neve. Una coltre sulla quale spiccano i rami che hanno addosso, spezzati dall’albero ad un’altezza di circa 5 metri da terra. Sulla corteccia, i primi esami rilevano tracce di pelle ed altri tessuti biologici. Uno dei ragazzi ha spezzato i rami. L’altro si è arrampicato sul pino a mani nude. Dall’albero si scorge quel che resta della tenda. I soccorritori iniziano a convincersi che c’è ben poco da soccorrere, e percorsi trecento metri trovano un altro cadavere. E’ Igor Dyatilov, il ventitreenne capo spedizione. Riverso sulla schiena con il capo rivolto in direzione del campo. In una mano stringe un ramo, mentre l’altro braccio è riverso sulla testa come ultimo, disperato tentativo di protezione. Per quanto si sforzino, i membri della squadra non riescono a darsi una spiegazione. Poi trovano Rustem Slobodin. A 180 metri appena, in direzione della tenda. Il viso sprofondato nella neve, sembra morto di ipotermia. Anche se una singolare frattura gli segna il cranio per un lunghezza totale di 17 centimetri. Una lesione che, secondo i patologi, non è di per sé sufficiente ad uccidere. Dalla posizione di Slobodin, che sembra essersi trascinato con le ultime forze in direzione della tenda, si scorge un altro corpo. E’ Zina Kolmogorova. Intorno al suo cadavere, parecchie tracce di quello che a buon diritto potrebbe essere sangue. Successivi esami confermano la natura del liquido, ma al contempo stabiliscono che non è quello della ragazza.
    A prima vista sembrerebbero morti assiderati, le mani bruciate con tutta probabilità dal clima rigido della notte uralica. Ma nessuno di loro è morto in pace. Tutti in pose dinamiche, come se avessero lottato con qualcosa, con un’ombra, con il vento. Siamo a cinque, ne mancano altri quattro. Non verranno scoperti fino al 4 maggio successivo, quando un incendio sviluppatosi nella valle di un affluente del Lozvy fa in modo che le autorità raggiungano una fenditura stracolma di neve che si apre nel terreno. Qui, in un crepaccio sotto 4 metri abbondanti di neve, c’è quel che resta degli escursionisti che ancora mancano all’appello. Nonostante anche loro siano mezzi nudi, a confronto dell’altro gruppo hanno qualche vestito in più addosso. Potrebbe forse sembrare che abbiano prelevato qualche indumento dai compagni, magari hanno tentato di trasportarli quando erano feriti. Alexander Kolevatov e Nikolay Tibo-Brignoles, che ha il cranio fracassato ed indossa due orologi (uno fermo alle 8:14 del mattino, l’altro alle 8:39). Alexander Zolotarev presenta fratture all’emicostato destro. Ludmila Dubinina ha un piede rozzamente fasciato dai pantaloni di lana di Georgyi Krivonishenko, e presenta anche lei fratture simmetriche al costato. In questo caso, una delle costole si è conficcata in un secondo tempo nel cuore, causando una massiccia emorragia cardiovascolare dopo l’impatto. In più, a Ludmila è stata asportata la lingua. Il cappotto di pelliccia di Ludmila, insieme al suo cappello, è però indosso a Zolotarev. Eppure, nessuno presenta segni esterni di colpi. Le ultime quattro salme vengono esaminate in fretta, ed in fretta deposte nei feretri per restituirli alla terra.

    jpg
    Una sommaria ricostruzione degli eventi di Passo Dyatlov


    Ai funerali, tra i tanti curiosi presenti c’è Yuri Yudin. Annichilito per la perdita dei compagni, certo, da quello scherzo del destino che fa di lui l’unico sopravvissuto ad un massacro che attende ancora una spiegazione. Resterebbe a lungo perduto tra i suoi pensieri senza forma, se qualcosa in quei corpi non lo turbasse oltre l’orrore della macabra fine cha ha scampato per un soffio appena. Sono tutti abbronzati. La loro epidermide è talmente infiammata da tendere all’arancione. E’ lo stesso colorito che ha visto negli altri, ritrovati relativamente subito rispetto alla tragedia e seppelliti qualche tempo prima. Ancora, i capelli di tutti sono improvvisamente diventati brizzolati. E non si è mai vista una cosa del genere in un gruppo di ventenni. Quando trapela la diceria secondo la quale gli esami forensi hanno rilevato su alcuni degli – scarsi – indumenti consistenti tracce di radioattività, come se i ragazzi avessero maneggiato materiale di questo tipo o si fossero attardati in un’area contaminata, quelle strane morti sembrano in un certo macabro modo aver più senso. Ma quel che alle spalle del massacro si riesce ad intravedere diventa, al contrario, ancor più fosco ed indefinito.
    Vittime di un’esercitazione militare, missilistica forse. E’ la prima ipotesi ufficiosa che comincia a circolare tra chi vorrebbe far luce sul mistero. Ma il Ministero della Difesa nega recisamente che in quella notte sia stato pianificato, preparato o portato a termine alcun test di questa natura. Gli esami sui dintorni confermano. Sull’Otorten non ci sono crateri, né tracce di esplosivo, né frammenti di lamiera. Insomma, sul monte maledetto non può essere caduto alcun razzo. Mentre le salme vengono interrate, le autorità chiudono il caso in modo tanto rapido quanto laconico. “Decesso provocato da forza sconosciuta ed irresistibile” è la dicitura riportata su tutti i certificati di decesso, che chiama in causa una forza maggiore a tuttora sconosciuta. Eppure, uno dei patologi alla fine ha ceduto.
    Dopo anni di silenzio e riluttanza, la Dottoressa Maria Salter ancora non riesce a dimenticare quei corpi che ha esaminato così da vicino. Tutti segnati da un’indefinibile espressione di orrore, smarrimento, rifiuto. Il volto di chi ha fissato la morte. L’incidente di Passo Dyatlov, lo chiamano oggi. Come tutto questo può essere accaduto, e soprattutto perché, nessuno può ancora dirlo con certezza. Così, mentre le spiegazioni si susseguono includendo sperimentazione di armi esotiche e missili, microscopiche esplosioni nucleari e valanghe di neve artificialmente procurate grazie agli ultrasuoni, un’altra ridda di ipotesi si fa strada, appigliandosi ora alle vecchie leggende, ora a nuove dicerie. UFO o incontri con creature aliene. Da decenni la gente del luogo ha infatti riportato resoconti incentrati su di un’insolita attività di oggetti volanti non identificati proprio tra questi monti. Ancora, si parla perfino di invasioni di creature selvatiche. Orsi o lupi, ma l’ipotesi non sarebbe comunque compatibile con le condizioni delle salme. Uccisi dai Mansi per aver oltrepassato i loro territori sacri? Negli anni Trenta, gli sciamani della tribù affogarono una geologa che si era avventurata su una montagna proibita. Ma sebbene il Kholat-Syakhyl e l’Otorten giochino un ruolo considerevole nel folklore Mansi, nessuno dei due rilievi è sacro al punto da essere considerato taboo. Anche se l’etimologia del secondo è “Non andare là”, mentre il primo significa “Montagna dell’Uomo Morto” in ricordo di alcuni membri della tribù periti in questo luogo in tempi immemori. Nove, per la precisione. Ma il villaggio Mansi più vicino dista quasi 100 km, e la tribù è ormai in pace con la popolazione russa. Massacrati da una gang di criminali? Scambiati dalle guardie carcerarie di un limitrofo campo di prigionia per evasi ed attaccati? Forse. Ma a Passo Dyatlov non ci sono altre impronte tranne quelle dei nove.
    Il Dottor Boris Vozrozhdenny ha esaminato da vicino i corpi. Alcuni hanno subìto urti troppo vigorosi per essere stati provocati dall’uomo. Sembrano quelli provocati dall’impatto di un’autovettura. Oppure, quelli di una morsa a cui non potevano sottrarsi, aggiunge il criptozoologo Mikhail Trankhtengertz, che sostiene invece l’ipotesi di un incontro notturno con una creatura di 3 metri di statura assai comune nel folklore: l’Almasti. Una sorta di Sasquatch locale. Altri hanno addirittura scomodato gli gnomi del sottosuolo russo… Sta di fatto che, fino a tutto il 1962, tutta l’area circostante è rimasta off-limits per escursionisti, curiosi e visitatori. Una semplice precauzione per evitare incidenti ai tanti sportivi della prima ora? E che ruolo hanno avuto le autorità sovietiche in tutto questo? Forza maggiore a parte, ciò che resta dopo decenni è forse il più semplice degli interrogativi. Eppure si tratta allo stesso tempo della domanda per la quale nessuno ha ancora trovato adeguata spiegazione. Perché nove persone fuggono dal loro rifugio in condizioni meteo estreme, consci di andare incontro non solo al gelo ma con tutta probabilità anche alla morte?
    Quando la sera cala in fretta tra le montagne a nord della regione di Sverdlovsk, ai turisti seduti accanto al fuoco si raccontano storie intriganti di una spedizione maledetta. E’ la vicenda della Gora Otorten, della Montagna dell’Uomo Morto che getta la sua ombra su una regione a 1900 km ad est di Mosca, e dei fatti avvenuti quasi mezzo secolo fa presso il famigerato Passo Dyatlov. Se si è fortunati ed il narratore è particolarmente in forma, le rievocazioni includeranno anche la leggenda dei nove Mansi periti sulla Montagna dell’Uomo Morto, e finiranno accennando al fatto che, nel 1991, un aereo si sarebbe schiantato sul Passo con un pugno di passeggeri a bordo, tutti deceduti, naturalmente. Per la precisione, sarebbero stati nove. Ancora una volta. “Se mi fosse data la possibilità di rivolgere una ed una sola domanda all’Onnipotente, gli chiederei di dirmi cosa è accaduto quella notte ai miei amici.”

    jpg
    Yuri Yudin, l’unico sopravvissuto, viene abbracciato dalla Dubinina mentre si accinge a tornare indietro



    E’ una brutta morale, quella di Yuri Yudin. Racchiude un’impotenza, quella che divora l’anima all’unico sopravvissuto di un’incredibile tragedia, che a tratti diventa dolore, perfino imbarazzo. Sembra una di quelle pellicole dell’orrore low-budget che spopolano ai botteghini. Nove allegri ragazzi che partono per una bella gita tra le montagne e poi non fanno più ritorno a casa. Ekaterinburg. Ieri si chiamava Sverdlovsk, in ossequio al Compagno Yakov Sverdlovsk, leader bolscevico. Tomba dell’ultimo zar e di tutta la sua famiglia brutalmente macellata dalla furia della Rivoluzione Russa. Alla fine degli anni Cinquanta, su Mosca vigila Nikita Khruschev. Un duro, ma dopo decenni di feroce repressione stalinista è comunque un passo avanti verso quella libertà che, per la popolazione, significa anche poter praticare liberamente sport o turismo. O, magari, entrambi contemporaneamente. Proprio come il Gruppo Dyatlov. Yury Kuntsevich all’epoca aveva appena dodici anni. Ma non dimentica il clamore che la notizia produsse tra la popolazione. Oggi presiede la Fondazione Dyatlov di Ekaterinburg. Riesamina spesso i tanti tasselli che in questa vicenda sembrano proprio non andare. A cominciare dalle strane dichiarazioni rilasciate da Lev Ivanov, capo-investigatore nel 1959, al giornale kazako Leninsky Put. Ivanov sosteneva di aver portato con sé un contatore Geiger al Passo Dyatlov, di aver assistito al tilt improvviso dello strumento. E, soprattutto, di essere stato forzato dai superiori a chiudere un caso scomodo classificandolo come segreto istruttorio.
    La Fondazione è nata nel 2000 per dare un seguito alle indagini troppo frettolosamente concluse quaranta anni prima. Per valutare il caso alla luce, ad esempio, dei molti report presentati a suo tempo circa presunte sfere volanti luminose, avvistate sull’area tra febbraio e marzo 1959 (con un picco registrato il 17 febbraio). Pare che un altro gruppo di studenti, accampato 50 km più a sud del Gruppo Dyatlov, ricordò di aver assistito all’insolito spettacolo di palle di fuoco sospese nel cielo notturno. Forse si trattava di un abbaglio. Magari erano soltanto illusioni ottiche, sommate alla stanchezza di una giornata pesante fra i monti. Ma le sfere volavano proprio sul Kholat-Syakhl, e quella era proprio la maledetta notte in cui i nove andarono incontro alla morte. Seguendo questa pista, si può ipotizzare che uno dei ragazzi forse uscì dalla tenda durante la notte, avvistò l’inquietante fenomeno ed allertò gli altri affinché si affrettassero nella foresta. Forse, ma qui andiamo ben oltre la semplice logica ipotetica, la misteriosa sfera esplose in aria mentre gli escursionisti correvano. Lasciando quattro di loro inerti al suolo e ferendo al contempo gli altri. Una versione forse azzardata, questo è vero, ma che è stata fatta propria anche da Yudin. I suoi amici sarebbero dunque inavvertitamente entrati in un luogo che doveva restare inaccessibile. Probabilmente, nel perimetro utilizzato per un esperimento militare supersegreto. Un’ipotesi che trova d’accordo perfino Kuntsevich. Ma che non può essere validata del tutto ricorrendo unicamente ai documenti declassificati nel 1990. Semplicemente perché gli indizi fondamentali mancano, e non si dispone, ad esempio, di informazioni precise circa le condizioni degli organi interni dei ragazzi. Questi, secondo Yudin, sono stati subito prelevati ed inseriti in contenitori speciali per esami approfonditi, per poi sparire nel nulla. Lo stesso Yudin è arrivato a sostenere che le autorità militari avrebbero aperto un‘indagine sulla sparizione dei ragazzi ben due settimane prima di quella ufficiale, in data 6 febbraio 1959.
    Sta di fatto che, se confrontiamo l’incerta storia del Passo Dyatlov con quella dell’Unione Sovietica in quel frangente storico, balzano immediatamente all’occhio almeno un paio di dettagli. Primo: nel 1957 l’Unione Sovietica ha inviato dal Cosmodromo kazako di Baikonur il primo satellite nello spazio. Siamo ad appena due anni prima della tragedia. Secondo: nel 1961, dalla medesima base si stacca Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio. Ed arriviamo a due anni dopo il nostro incidente. Ora, può la tragica fine del Gruppo Dyatlov porsi in mezzo ai due eventi? Esiste un legame tra questi fatti che renda conto del massacro considerando l’ipotesi di un incidente connesso con la forsennata corsa sovietica allo spazio? Potrebbe sembrare plausibile, forse. Ma tutto questo si va a scontrare, ancora una volta, con l’assoluta mancanza nella zona di impronte diverse da quelle dei nove. Igor Dyatlov aveva un migliore amico. Il suo nome è Moisei Akselrod. E’ stato lui uno dei vecchi curiosi che hanno a lungo indagato sugli strani fatti del ’59. Ma la sua è una teoria assai meno fantasiosa.

    Moisei propende per l’ipotesi dell’imprevisto atmosferico. Una valanga, a suo parere, avrebbe colpito la tenda dei nove sciatori nel bel mezzo della notte. Alcuni sarebbero rimasti feriti nell’impatto, e la consistente massa di neve avrebbe tra l’altro bloccato l’ingresso del rifugio, costringendo i ragazzi a lacerare la tenda per cercare scampo. Il loro errore assoluto, in questo senso, sarebbe stato costituito dall’aver imboccato la strada sbagliata. Acceso il fuoco avrebbero provveduto a distribuire i pochi vestiti portati con sé ai feriti, che non avrebbero mostrato segni di impatto diretto in quanto la valanga li avrebbe raggiunti non direttamente, ma attraverso il tessuto della tenda. Ma gli sciatori hanno camminato nella notte per più di un chilometro, ad una temperatura considerevolmente inferiore allo zero. Molti di loro, tra l’altro, riportavano ferite tali da ridurre in stato d’incoscienza, ed anche considerando la possibilità che fossero stati pietosamente trasportati altrove dagli altri, la sequenza delle morti non combacia affatto con un incidente occorso contemporaneamente a tutti (perché la Dubinina, che aveva riportato la lesione peggiore, è stata trovata ben oltre l’inizio del bosco, mentre due suoi compagni, maschi ed in salute, sono morti di ipotermia in prossimità del pino, a centinaia di metri di distanza dal crepaccio in cui la donna è stata trovata?). Ancora una volta, sono davvero molti gli interrogativi che questa storia lascia dietro di sé.
    Frattanto, su quello che oggi si chiama, purtroppo, Passo Dyatlov, sorge un piccolo obelisco di pietra con nove fotografie ovali. Ricorda la tragedia del 1959. Igor Dyatlov e Rustem Slobodin, 23 anni. Alexander Kolevatov, 25. Georgyi Krivonischenko, Nikolay Tibo-Brignoles e Yury Doroshenko 24. Ludmila Dubinina, appena 21. Zinaida (Zina) Kolmogorova, 22. Alexander Zolotarev, il più “vecchio” del gruppo, 37 anni. Nove vite sottratte senza una spiegazione. Il prezzo terribile del segreto dell’Otorten.
    terraincognitaweb.com

    altri siti per approfondimenti aquiziam.com/dyatlov_pass
    lisaleaks.com/2014/01/18
    nibiru2012.it/forum/misteri
    CITAZIONE

    Mistero del Passo Dyatlov, c’è una nuova teoria
    «Così morirono quei 9 giovani escursionisti»


    A 55 anni dall’oscuro incidente sugli Urali un libro spiega cosa accadde la notte del 2 febbraio 1959



    La notte del 2 febbraio di 55 anni fa successe qualcosa di molto strano sui monti Urali. Esattamente sul versante orientale del Cholat Sjachl, il Monte dei Morti. Qualcosa che da quel lontano 1959 è avvolto dal mistero, dalla paura e dalle più strane teorie. Fra quei boschi innevati, a meno 30 gradi centigradi, «una irresistibile forza sconosciuta» (così disse l’inchiesta) causò la morte di nove giovani escursionisti russi del politecnico degli Urali, sette ragazzi e due ragazze. Ventiquattro giorni dopo il misterioso incidente fu ritrovata la loro tenda: completamente sconquassata e lacerata dall’interno. Dai resti della tenda partivano delle orme . Seguendole, i volontari trovarono i primi cinque corpi dei ragazzi: alcuni completamente nudi, con le mani bruciate, altri solo con la biancheria intima, tutti senza segni esterni di violenza. Sparsi a poche centinaia di metri uno dall’altro, sotto un cedro. I cadaveri degli altri quattro furono invece rintracciati invece solo tre mesi dopo, sotto quattro metri di neve gelida. E con dei traumi inspiegabili e non prodotti da altri esseri umani per la loro potenza: cranio fracassato, cassa toracica compressa fino a spezzare le costole. E un corpo, quello di una ragazza, senza lingua. La storia che quei cadaveri potevano raccontare è rimasta incomprensibile per molti anni. Fino a oggi: l’americano Donnie Eichar -regista, produttore e autore per cinema e tv - ha una nuova teoria che spiegherebbe tutto.

    LA TEMPESTA PERFETTA E GLI INFRASUONI - Dopo aver studiato per cinque anni tutte le carte e le testimonianze sull’incidente del Passo Dyatlov (chiamato così dal nome del capo della spedizione, il 23enne Igor Dyatlov), e aver anche ripercorso il viaggio dei nove escursionisti, Eichar sostiene di aver capito cosa successe la notte del 2 febbraio 1959. Una spiegazione scientifica che non tira in ballo né esercitazioni segrete dell’esercito sovietico né gli alieni o misteriose contaminazioni radiattive. Secondo l’autore i ragazzi si trovarono al posto sbagliato nel momento sbagliato: durante una “tempesta perfetta”. I venti, velocissimi, scontrandosi con la particolare forma a cupola della Montagna dei Morti diedero vita a dei furiosi vortici di aria che crearono dei mini tornado violentissimi nel passo dove c’era l’accampamento. Il rumore prodotto dal fenomeno doveva essere assordante. Ma c’è di più. Eichar dice anche che tormente come quella possono generare anche una gran quantità di infrasuoni (il contrario degli ultrasuoni) che, non udibili dagli uomini, sono capaci di avere effetti sul corpo umano: le vibrazioni prodotte da queste particolari onde sonore causano perdita del sonno, mancanza di respiro e, soprattutto, un panico indicibile e incontrollabile. Un terrore che, amplificato dal buio della notte e dal frastuono dei tornado, avrebbe insomma portato i nove ragazzi alla follia. E poi alla morte.

    LE PALLE DI FUOCO ARANCIONI IN CIELO - Dai tempi dell’incidente sono state moltissime le teorie che hanno cercato di spiegare il mistero del Passo di Dyatlov. Le indagini si (non) chiusero ufficialmente nel maggio del 1959: nessun colpevole se non «una irresistibile forza sconosciuta» che avrebbe ucciso i giovani. Si disse che su alcuni brandelli di vestiti delle vittime c’erano alti livelli di radioattività. I ragazzi avevano trovato sul loro cammino qualcosa con cui non avrebbero mai dovuto venire in contatto? Un gruppo di escursionisti che si trovava poco distante dal gruppo riferì di aver visto nel cielo delle “sfere arancioni”. Cosa confermata in quei mesi anche da avvistamenti analoghi fatti dal servizio meteorologico e membri dell’esercito. Si scoprì più tardi che le «palle arancioni» erano lanci di missili balistici R-7. Quando poi negli anni Novanta i fascicoli dell’inchiesta furono desecretati, alcuni particolari furono pubblicati dalla stampa e ne venne fuori anche una teoria secondo cui le morti erano legate alla sperimentazione di un’arma segreta sovietica.

    QUEI RAGAZZI CHE AMAVANO LA NATURA E LA MUSICA - Per ricordare le vittime dell’incidente è stata istituita a Ekaterinburg la Fondazione Dyatlov, che si propone anche di far riaprire il caso alle autorità russe. I ragazzi morti misteriosamente quella notte di 55 anni fa erano: Igor Dyatlov, capo 23enne della spedizione; Zinaida Kolmogorova, 22 anni; Ljudmila Dubinina, 23enne che fu trovata senza lingua; Aleksandr Kolevatov, 24 aani; Rustem Slobodin, 23 anni; Jurij Krivoniščenko, 24 anni; Jurij Dorošenko, 21; Nikolaj Tibo-Brin’ol’, 37 anni; Aleksandr Zolotarëv, che proprio quel 2 febbraio aveva compiuto 38 anni. Erano tutti innamorati della natura e della musica, spesso passavano la sera a cantare e una volta, durante una visita a una scuola in una tappa del loro viaggio, avevano conquistato con i loro racconti i bambini che poi li avevano voluti accompagnare alla stazione.Sono cose che ha raccontato un loro amico, prima di chiudersi nel silenzio per oltre 50 anni:Jurij Judin era partito insieme a loro il 23 gennaio per quella avventura ma poi cinque giorni dopo li aveva abbandonati. Stava infatti male fisicamente e non poteva proseguire la spedizione. È morto a 70 anni dopo aver vissuto tutta la vita con il senso di colpa per essere scampato a quella misteriosa notte che ha portato via i suoi migliori amici.

    03 febbraio 2014
    Angela Geraci

    corriere.it/esteri

    CITAZIONE
    25 Gennaio 1959. È una mattina gelida, a Ivdel, nell’Oblast di Sverdlovsk. Ma il freddo non spaventa la comitiva appena arrivata in treno per una spedizione in montagna. Meta: Otorten, una vetta degli Urali. Un percorso- vista la stagione e le temperature sotto zero- decisamente proibitivo. Ma quei giovani escursionisti, esperti e ben attrezzati, sono sicuri di arrivare a destinazione entro la metà del mese seguente. Non possono immaginare quale terribile sorte li stia aspettando. Tragica e ancora oggi misteriosa.


    dyatlov-lui-300x197

    IGOR DYATLOV, UNA DELLE GIOVANI VITTIME DEL MISTERIOSO INCIDENTE


    Il più anziano del gruppo è Semyon Zolotarev, 38 anni, appassionato scalatore e guida. Tutti gli altri sono studenti e neolaureati del Politecnico degli Urali, poco più che ventenni. A guidarli è Igor Dyatlov. Il 27 gennaio, parte la loro marcia. Il giorno seguente, uno degli amici si ammala e rinuncia. Rimangono in 9- sette uomini e due donne. Il 1 febbraio si muovono in direzione del Kholat Syakhl- la “montagna morta”, in dialetto locale. Ma sbagliano percorso, traditi dal maltempo. Si accampano alle pendici del monte, in quel passo che prenderà poi il nome del giovane Igor, in memoria sua e dei suoi compagni.

    Passano i giorni, uno dopo l’altro, senza alcuna notizia dei ragazzi. Arriva anche il 12 febbraio- data nella quale Dyatlov aveva promesso di inviare un telegramma a missione compiuta. I parenti si preoccupano, insistono che vengano mandati dei soccorsi. La spedizione formata da volontari e altri studenti parte il 20 febbraio; a loro si uniscono poi i soldati con gli elicotteri.

    Il 26 febbraio, i soccorritori trovano l’accampamento vuoto: la tenda- schiacciata dalla neve- è piena di abiti e suppellettili e presenta dei tagli prodotti dall’interno. Tutto fa pensare che i ragazzi siano usciti precipitosamente da lì, dimenticandosi le scarpe, indossando soltanto calze o addirittura a piedi nudi.

    A 500 metri, sotto un albero, trovano i primi due corpi, vicino ad un falò ormai spento. Sono quelli di Yuri Krivonischenko e di Yuri Doroschenko. Ci sono dei rami spezzati: forse uno dei due si è arrampicato per cercare il campo-base. Tra quel punto e la tenda, vengono scoperti altri tre cadaveri, a distanza di qualche decina di metri l’uno dall’altro, come se avessero tentato- in fila indiana- di ritrovare l’accampamento. Si tratta di Igor Dyatlov, Zina Kolmogorova e Rustem Slobodin. Ma gli altri quattro escursionisti mancano all’appello.

    dyatlov-tenda
    LA TENDA DEGLI ESCURSIONISTI


    Li recupereranno solo a maggio, durante il disgelo, sepolti sotto metri di neve, in un dirupo. Lyudmila Dubinina, Alexander Kolevatov, Nicolai Thibeaux-Brignoles e Semyon Zolotarev sono coperti da vari strati di indumenti: probabilmente hanno tolto gli abiti ai compagni morti per scaldarsi, ma non è bastato a salvare loro la vita. Su quei corpi viene effettuata l’autopsia per chiarire le cause della morte. I primi cinque sono deceduti per ipotermia. Ma i cadaveri trovati in primavera rimescolano le carte: tre presentano traumi cranici e toracici molto gravi, simili a quelli provocati da un incidente stradale.

    Eppure non ci sono segni esterni, nè lesioni, nè ferite superficiali. Tranne che su Lyudmila: le mancano la lingua, gli occhi e parte della mascella. Per i medici, probabile effetto della decomposizione: è rimasta a faccia in giù in un rivolo di acqua corrente. Ma non riescono a capire cosa li abbia uccisi. Tanto che sul referto- rimasto a lungo segreto nell’URSS comunista- viene indicata una generica “irresistibile forza naturale”.

    L’inchiesta viene archiviata e dimenticata. Non se parlerà più fino agli anni ’90, quando il caso torna alla ribalta, insieme a parte dei documenti ufficiali dell’epoca. Giornalisti e scrittori se ne appassionano e le notizie iniziano a circolare. E con esse, anche gli interrogativi.

    Le perizie mediche hanno infatti accertato che sei giovani sono morti per il freddo e tre per le gravi fratture, ma tutti tra le 6 e le 8 ore dopo l’ultimo pasto. Sugli abiti di alcune vittime, poi, sono stati riscontrati alti livelli di radioattività. Altre testimonianze aumentano il mistero. Yuri Kuntsevich- 12enne nel 1959- assistette ai funerali di 5 degli sciatori morti: ricorda che avevano la pelle scurissima, come tinta di marrone.

    E altri escursionisti, che in quegli stessi giorni stavano attraversando gli Urali 50 chilometri a sud dal luogo della strage, raccontano di aver visto, nella notte dell’incidente, strane sfere arancioni brillare nel cielo in direzione del Kholat Syakhl. Luci avvistate in seguito da decine di altre persone.


    dyatlov-vittime
    COSA HA UCCISO I GIOVANI SCIATORI ?


    Chi o cosa ha ucciso il gruppo di Dyatlov? Un agguato da parte degli indigeni Mansi? Improbabile: non c’erano tracce di altre orme umane nè di un combattimento corpo a corpo. Li ha sorpresi una slavina ed in preda al terrore sono fuggiti seminudi, a -30 gradi, morendo nel giro di pochi minuti? Questa ipotesi spiegherebbe la mancanza di scarpe e altri indumenti, ma non giustifica l’assenza di ferite esterne sui corpi politraumatizzati.

    Ecco perchè vengono avanzate altre teorie. La loro morte sarebbe stata il danno collaterale di un esperimento militare segreto, oppure sarebbero stati eliminati proprio perchè avevano visto quello che non dovevano vedere. L’accampamento si trovava sulla traiettoria dei missili intercontinentali R-7, lanciati dal cosmodromo di Baikonur: erano forse quelle le sfere luminose?

    Ma è stata persino ipotizzata la pista aliena. Gli scalatori sarebbero rimasti vittime di entità extraterrestri dotate di armi a noi sconosciute. Ad affermarlo in un articolo, un ex poliziotto, Lev Ivanov, a capo dell’inchiesta condotta nel 1959. Oltre 30 anni dopo, rivelò di aver ricevuto pressioni da parte dei suoi superiori per interrompere le indagini: gli venne chiesto di mantenere il più stretto riserbo in particolare sulle luci arancioni apparse in cielo. Sicuramente Ufo, secondo Ivanov.

    A distanza di 55 anni, l’incidente del Passo Dyatlov è ancora un enigma. Ma ora un regista americano, Donnie Eichar, è convinto di aver capito cosa abbia stroncato quelle giovani vite- e la sua è una spiegazione scientifica, elaborata in collaborazione con ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration. Dopo quattro anni di ricerche per la stesura del suo libro su questa drammatica vicenda, è arrivato alla conclusione che sia stata davvero una “inarrestabile forza naturale”.


    dyatlov-lapide

    LA LAPIDE CHE RICORDA LE GIOVANI VITTIME


    A provocare la tragedia, dice Eichar, sarebbero stati gli infrasuoni, prodotti dai venti che spesso spirano furiosi tra queste montagne dalla particolare conformazione. E studi scientifici dimostrano che gli infrasuoni, non percepibili dall’orecchio umano, hanno un effetto sconvolgente sulla mente: provocano confusione, senso di ansia ed improvvisi attacchi di panico.

    Proprio quel tipo di comportamento irrazionale che spinse quei nove escursionisti esperti a lasciare la loro tenda, nel cuore della notte, senza neppure coprirsi. Un’ipotesi plausibile, ma non esauriente. Perchè non si giustificano gli abiti radioattivi, l’assenza di lesioni, la pelle color marrone: tutte anomalie che sfuggono alle spiegazioni finora individuate. Lo strano caso dell’incidente del Passo Dyatlov resta aperto.

    SABRINA PIERAGOSTINI extremamente.it/2014/02/05


    Edited by Karou - 19/2/2014, 09:04
     
    .
0 replies since 17/2/2014, 17:38   625 views
  Share  
.